Nuovo buono pasto per i dipendenti: luci, ma più che altro ombre

A decorrere dal 1 maggio 2024 il servizio di ristorazione dei dipendenti del Comune di Milano è cambiato: proverò a sintetizzare cosa prevede il nuovo capitolato d’appalto, cosa chiedono le parti sociali, quali sono le luci (poche) e le ombre (ancora troppe) del nuovo corso. Nel caso vi foste persi la puntata precedente, ne ho scritto un annetto fa qui.

Il buono pasto sostitutivo del servizio mensa, al momento erogato tramite badge del Comune (più avanti chissà..) si conferma giornaliero, non cumulabile, non spendibile nei supermercati. Il suo valore, ovvero quanto erogato dalla municipalità in caso di utilizzo, passa da 5 a 7 euro di valore nominale. Questo con buona pace delle mezze promesse di implementare il sistema a partire dal 2025 (come richiesto da RSU e sindacati confederali) con ticket spendibili nella gdo e, cosa ben più importante, cumulabili.

Il nuovo capitolato d’appalto prevede almeno 1200 locali convenzionati. Di questi 900 sono esercizi pubblici, negozi alimentari, catene di prodotti bio e naturali, cui sarà possibile accedere senza limite di orario nel giorno di servizio. A questo, che resta il pacchetto principale e paradossalmente sganciato dalla fornitura di un pranzo vero e proprio, si sommano 300 locali convenzionati per la fornitura di pasto light e pasto standard, tra le ore 12 e le 15, di cui almeno 25 aperti anche in orario serale, sabato, domenica e/o festivi, a beneficio dei turnisti. Il pasto light prevede:

  • “primo e contorno” o “secondo e contorno” o tris (grammatura – 30% rispetto ai piatti singoli) + pane (o grissini o crackers) + frutta (o yogurt) e acqua
  • oppure pizza + frutta (o yogurt o mini-dessert) + acqua
  • oppure 2 panni (o piadina) + extra non meglio identificato + acqua
  • oppure poke (o sushi) in completa assenza di ulteriori dettagli

Il pasto standard, va da sé, prevede primo + secondo + contorno + quanto previsto per il pasto light in conformità alla tabella delle grammature dei singoli alimenti. In ogni caso dev’essere garantita almeno un’alternativa vegetariana, sempre. Fin qui chiaro. Quanto costa? Le formule di fruizione sono tre:

  1. Ticket nominale di 7 euro
  2. Formula light con aggiunta di 2 euro
  3. Formula standard con aggiunta di 3,5 euro (come prevede la legge, un terzo a carico del dipendente per il pasto completo)

Sostanzialmente l’aumento d’investimento del comune è a tutto vantaggio dell’esercente, che era strangolato dal precedente capitolato d’appalto (7 euro ca. per un pasto completo caldo) ed è così rimborsato in forma più equa. Fino a qui tutto molto bene, a beneficio quantomento potenziale dei diritti degli altri lavoratori, della qualità delle materie prime, della sopravvivenza degli esercizi di prossimità. Lato dipendente, per ottenere esattamente lo stesso servizio di prima, bisognerà spendere 1,5 euro in più al giorno. 9 euro alla settimana. Quasi 40 euro al mese. Non ci siamo proprio, specialmente una volta che andiamo a verifica della reale corrispondenza tra attese, reale distribuzione territoriale dei punti ristoro, e concreta offerta degli stessi.

Si potrebbe dire che 1200/1300 locali convenzionati non sono pochi. Al netto delle decine di segnalazioni di convenzioni mai controfirmate e tantomeno desiderate dai locali indicati in tabella. Ma attenzione. 1260 locali su Milano significa, in un municipio tra i nove, un’ottantina di opportunità, che si riducono a 25 nei CAP di riferimento che si dimezzano ulteriormente in prossimità della sede di lavoro, che scremati dalla “prova sul campo” ci dicono quanto segue. Se proviamo a visualizzare su mappa i locali convenzionati scopriamo in breve che a distanza pedestre da una normale biblioteca situata in quartiere periferico abbiamo ben 0 self-service, 0 alimentari, 1 bar (che però non eroga realmente il servizio), 1 gastronomia (leggi macelleria), 1 pizzeria, 3 trattorie-ristorante-tavola calda (che non necessariamente erogano tutte le formule previste!), 2 fast-food. Togliamo il panino, che è un’opzione di comodo che non offre variazioni né costituisce un pasto completo o equilibrato. Facciamo la tara su quanti non erogano mai o quasi pietanze vegetariane. Ponderiamo il dato con le chiusure settimanali (parecchi il lunedì, quasi tutti il sabato), con quelle serali e col fatto che solo il 30% degli esercenti ha l’obbligo di offrire il pasto light, e scopriremo presto uno scenario assai diverso da quello che i numeri vorrebbero indicare. A questo punto, giusto per citarle, aggiungiamo di contorno le violazioni che riguardano la fornitura di frutta o yogurt, per non dire del pane, spesso semplicemente ignorati nei menù proposti, ed avremo la misura reale del diritto al pasto a 1km dalla sede di lavoro.

A voler eccedere si potrebbe aggiungere una riflessione su questo ticket di 7 euro disponibile a prescindere dal fatto che venga utilizzato per il pasto, e tuttavia a scadenza nel giorno lavorativo, nonostante situazioni di comprovata assenza di esercenti a distanza sensata dal posto di lavoro. Perché piuttosto di costruire un sistema di appalto se non cumulabile ad libitum quantomeno con buoni spendibili in settimana? Non sarebbe meglio acquistare per cucinare qualcosa di degno invece di perder tempo avanti e indietro per spendere 7 euro al giorno dopo una coda talvolta insostenibile e calcolando oltre ai propri gli orari di apertura dell’unico esercente a portata di passi? Perché passare dalla trattenuta in busta paga (pulita, tracciata, facile) a pretendere pagamento cash quotidiano di 3,5 euro? Tutti enigmi razionalmente irrisolvibili.


La civica di Cosenza è chiusa da quattro anni, a Siracusa si medita di alienare la biblioteca comunale di via dei Santi Coronati, al rione Luzzatti di Napoli è in pericolo la biblioteca Andreoli mentre in provincia di Verona (San Martino Buon Albergo) si fa strada il taglio di un quarto dello stipendio ai dipendenti. Fatti, grandi e piccoli, di maggior rilievo rispetto al diritto al pasto? Probabilmente sì, e forse no. L’attuale stato di agitazione di RSU e sindacati si inserisce nella cornice del progressivo prosciugamento del numero dei dipendenti del Comune di Milano (oltre 1100 dipendenti in meno negli ultimi sei anni) che vedrà per la prima volta, in tempi brevi, abbattere la soglia dei 13.000 dipendenti. Questo a causa del mancato turn-over e delle esternalizzazioni (leggi MM, Amat, musei e cooperative), in altre parole per un piano straordinario delle assunzioni servono risorse aggiuntive nel bilancio 2024. Risorse adeguate a ripristinare carichi e qualità dei servizi, risorse con cui sarebbe possibile ottenere il cumulo dei ticket.

Cinque appunti in conclusione:

  1. L’adeguamento economico era un fatto dovuto e orientato a non strangolare i piccoli esercenti che aderiscono alla convenzione, col noto esito di avere per tutte e tutti meno scelta, meno diritti e meno qualità.
  2. Per la fornitura di un pasto completo la/il dipendente dovrà spendere quasi il doppio di prima e questo nel contesto di un adeguamento contrattuale che non prevede in alcun modo il recupero dell’inflazione.
  3. La cumulabilità è un orizzonte di lotta di un certo rilievo, a differenza dell’accesso alla gdo che è sempre un’arma a doppio taglio, agitata anche dalle parti sociali alla ricerca spasmodica di consenso dei dipendenti, ma sostanzialmente utile soprattutto a spostare milioni di euro all’anno dai servizi di prossimità agli ipermercati, con la logica conseguenza di impoverire i territori degli stessi luoghi che si vorrebbe convenzionare e che si potrebbe sostenere.
  4. Le periferie restano svantaggiate perché sovente sprovviste di molte caratteristiche indicate in capitolato (locali aperti in orario non convenzionale, scelta vegetariana, distanza dal posto di lavoro) e per tutte queste situazioni dovrebbe essere previsto il buono pasto sostitutivo, tema apparentemente dimenticato dai sindacati.
  5. La cornice nazionale in cui avviene questo aggiornamento della convenzione è quella del rinnovo dei contratti del pubblico impiego (in riferimento al triennio 2022-2024) che vede già penalizzate lavoratrici e lavoratori con un’ipotesi di aumenti salariali del 6% a fronte di un tasso d’inflazione che sfiora il 17%.

E ora sì, buon appetito!