I negozi delle idee nascono nel 2002 nella municipalità di Tower Hamlets, un distretto contenitore dell’east-end londinese che accoglie la generazione che le ha dato forma negli anni sessanta, una nuova composizione migrante, persistenti sacche di marginalità, angoli lussureggianti quali Canary Wharf.
Alla base del processo c’era la constatazione del basso impatto che le biblioteche storiche avevano in quella porzione di Londra, la disponibilità dell’amministrazione metropolitana a un investimento basato su analisi dei bisogni espressi (dagli utenti) e inespressi (da porzioni della comunità locale non-utente), la consapevolezza che la nuova formula potesse essere concepita con la consulenza di soggetti terzi (urbanisti, architetti, consulenti, progettisti, designer..) per dare una casa inedita, situata in posizione strategica, e adeguata a contemperare servizi bibliotecari e programmi di intrattenimento, formazione, crescita personale.
Molte biblioteche sono costrette a ridurre l’acquisto di libri o addirittura chiudono. «Lo so ed è terribile. Ma le dico questo. Tempo fa mi hanno chiesto di aderire a una campagna per salvare biblioteche che spariscono perché poco frequentate.
Da un’intervista a Sergio Dogliani
Non ho firmato».
Questo processo di rigenerazione del modello bibliotecario (che ha portato a ripensare la sua comunicazione, gli orari di apertura, l’offerta culturale) ha incontrato un successo di pubblico e di critica niente affatto scontato. Il concept degli Idea Store punta infatti su innovazione, comfort, freschezza, quali elementi imprescindibili per competere in un contesto di proposte ricreative ricco quale quello metropolitano. Chi paga? Per tre quarti il costo è a carico del pubblico, per un quarto all’utenza, che accede liberamente ma paga per i corsi, ed evidentemente percepisce un valore diverso da quello espresso dalle vetuste polverose istituzioni bibliotecarie. Per dirla con le parole del loro “deputy head” un’alternativa a quelle biblioteche di stampo tradizionale che non si sono adeguate al cambiare dei tempi.
Il programma nasce alla fine degli anni novanta con uno sguardo convergente dei ministeri della cultura e dell’istruzione, e che oggi riverbera nei diversi Idestore operativi (Chrisp Street dal 2004, Whitechapel al 2005, Canary Wharf dal 2006 e Watney Market dal 2013) che fanno congiuntamente formazione continua, fornitura di servizi pubblici e biblioteca nel medesimo luogo.
li abbiamo improntati su un modello commerciale nel senso buono della parola, delle idee e del design e dell’aspetto visivo. per cui sembrano più delle librerie di classe anzichè delle fatiscienti biblioteche.
Sergio Dogliani sul palco di TEDxNapoli
Il modello ha suscitato polemiche, risposte ma specialmente la curiosità desiderante di chi vuole segnalare (in un contesto diverso e selezionando i soli aspetti d’interesse) le opportunità di una biblioteca 2.0 negate sul suolo patrio. Se questo è certamente importante alla ricerca di spunti d’interesse, poca attenzione è stata posta a sottolineare gli interrogativi che questa opzione pone. Con questo non voglio proporre scomuniche, gironi di recupero né giudizi in senso lato. Mi preme solo mettere nero su bianco quel che ho letto, perché questa distanza va dichiarata, e che non mi ha convinto.
- 11 milioni di euro del progetto relativo ai primi quattro Idea store sono stati ricavati dalla valorizzazione (privatizzazione) di immobili pubblici di proprietà comunale.
- I dipendenti tendenzialmente non hanno un profilo professionale bibliotecario e si fa ampio uso del volontariato.
- Le funzioni di catalogazione sono sostanzialmente esternalizzate.
- Gli store sono aperti sette giorni su sette.
- I corsi sono a pagamento, così come le visite per “consulenze” sul concept. Pongo non casualmente questo punto in conclusione dell’elenco.
Non vi ha sconvolto lo so. La cura degli ambienti, la dimensione geneorsa ma non ciclopica (1000/3500 mq), un’adeguata dotazione di personale retribuito e professionalizzato, dotazioni peculiari laddove utile (dalla galleria d’arte agli armadietti personali, alla caffetteria, passando per l’incameramento di altri servizi di comunità) sono certamente delle buone pratiche, specie se connesse ad una strategia di welfare culturale dai programmi didattici estesi e dalla produzione di un ambiente meno normativo. Una sorta di centro culturale di prossimità, che ha diversi punti di contatto con le biblioteche polivalenti che hanno fatto la loro stagione a partire dagli anni settanta in Italia.
Il mio cruccio non è tanto l’ammiccamento all’immaginario Ikea, l’estetica da bookshop, né l’accento esasperato sulle capacità relazionali, piuttosto se sia desiderabile la costruzione di uno spazio bibliotecario che rinuncia alla gratuità, alla gestione pubblica delle funzioni biblioteconomiche, al tempo di chiusura, alla retribuzione del lavoro (su questo si vedano le mansioni richieste ai volontari), alla tutela del patrimonio della città pubblica. L’attenzione al posto giusto è un indirizzo prezioso, purché il valore percepito aumenti senza mutuare il luogo in location.
Foto di copertina di Tim Mossholder, su Unsplash