A quasi tre anni di distanza dalla querela presentata da Hachette, Penguin (che con IA aveva già ingaggiato battaglia sul precedente di Maus), HarperColling e John Wiley & Sons, il processo per violazione di copyright nei confronti di Internet Archive ha preso il via nel marzo 2023, per chiudersi, tra luci e ombre, cinque mesi più tardi. La sentenza dello scorso 11 agosto infatti da un lato smentisce l’ipotesi di lavoro sul fair use promossa da IA, dall’altra scontenta le pretese restrittive delle grandi quattro.
Un passo indietro. Il più grande e longevo archivio di internet ha tra i suoi progetti più apprezzati la Open Library, che dal 2007 digitalizza volumi cartacei che poi offre in regime di prestito digitale controllato (CDL) che poi significa che presta una copia per volta, o comunque un numero di copie equivalente a quelle cartacee possedute, e squisitamente a tempo determinato…un po’ come le biblioteche fisiche. Qual è dunque il problema? Nei primi mesi della pandemia la non profit fu protagonista del progetto National emergeny library, immaginata per sopperire alla chiusura della istituzioni bibliotecarie, e dunque con un regime di prestito ispirato al concetto di fair use sempre limitato nel tempo ma non più nel numero di copie digitali circolanti.
Il prestito tramite la OL avviene in base alla teoria del Controlled Digital Lending, la qualenon è prevista dalla legge sul copyright statunitense ma che, secondo i teorizzatori, si basa sui principi della first sale doctrine e del fair use.
Il caso Hachette v. Internet Archive (Fabio Mercanti, Jlis)
Accordi formali di cooperazione e supporto furono presto siglati con diverse prestigiose istituzioni, tra le molte la University of North Carolina Press e la Duke University Press, tuttavia il servizio (a vocazione non commerciale) cessò di funzionare con due settimane di anticipo il 16 giugno 2020 su pressione delle montanti minacce legali. Parentesi: nello stesso periodo anche in ambito europeo si sono date innumerevoli iniziative, appelli, lettere aperte, proposte per un ripensamento “a tempo determinato” delle soglie d’accesso alla cultura, all’informazione scientifica, ai saperi in genere. Si legge in proposito il dossier pubblicato da Biblioteche oggi e disponibile online.
Siamo sbalorditi dall’attacco aggressivo, illegale e opportunistico dell’Internet Archive ai diritti degli autori e degli editori nel mezzo della nuova pandemia di coronavirus
Maria Pallante, presidente e CEO dell’Association of American Publishers
A processo non ancora concluso, sempre nel corso dell’estate ’23, ad aprire un nuovo fronte d’attacco a IA (ma non solo, anche al veterano Great 78 Project) è il turno delle major dell’industria musicale Sony, Universal Music Group (UMG) e Capitol.
Quando le persone vogliono ascoltare musica, vanno su Spotify. Quando le persone vogliono studiare registrazioni audio a 78 giri come sono state originariamente create, vanno in biblioteche come Internet Archive. Entrambi sono necessari. Non dovrebbero esserci conflitti
Brewster Kahle, fondatore IA
In questo caso ad essere sotto scacco è una campagna di conservazione e digitalizzazione di centiana di migliaia di registrazioni musicali presenti sostanzialmente in formato vinile, e per questo motivo suscettibili di consunzione e danneggiamento.
IA fu fondata nel lontano 1996 a San Francisco da Brewster Kahle e Bruce Giliat, oggi è nota al grande pubblico anzitutto per la sua wayback machine. Eppure dentro il suo scrigno c’è molto molto di più: migliaia e migliaia di videogiochi per dos oggi giocabili via browser, software d’annata, collezioni di immagini altrimenti introvabili, film in regime di public domain, live musicali, calcolatrici scientifiche. I numeri poi sono impressionanti: al 2021, statistiche non proprio recentissime, parliamo di 70 petabyte di dati suddivisi in 600 miliardi di pagine web, 4 milioni di filmati, 14 milioni di file audio e via così. Per non dire dell’operazione recupero messa in campo in occasione dello smarrimento da parte di myspace di qualche terabyte di dati smarriti in un cambio server ormai qualche anno fa (lo stesso potremmo dire a proposito di geocities, yahoo answer, panoramio..) o dei tre progetti attivati per evitare lo smarrimento dei siti e di altre risorse digitali in Ucraina, dopo l’inizio del conflitto ormai due anni fa, e in parte sin dal 2014.
L’Archivio della rete non è solo una macchina del tempo, un paziente archeologo del web. Lo scrigno custodisce oggi 40 milioni di volumi scansionati, per cui l’opportunità del prestito ha l’ambizione (per dirla con una formula nota ma efficace!) di trasformare la conservazione in conversazione, e il cui danno economico per le major editoriali non è stato mai dimostrato in sede processuale. Tant’è vero che quando IA chiese di accedere all’ultimo decennio di dati di vendita a cadenza mensile, nel tentativo di leggere i dati relativi alla pandemia all’interno di tendenze di medio periodo, l’accesso le fu negato da parte degli editori coinvolti nella schermaglia, dopo che già l’appello a lavorare congiuntamente in sede extragiudiziale era stato ignorato.
Il programma di Internet Archive per scansionare e prestare libri della biblioteca è “un furto, chiaro e semplice”.
Keith Kupferschmid, CEO della Copyright Alliance
La sentenza dello scorso anno non ha riconosciuto l’idea estensiva di fair use promossa dalla National emergeny library nella cornice della prima fase pandemica, eppure ha limitato la sua azione restrittiva ai soli libri distribuiti in formato ebook, piuttosto che a tutti i volumi in commercio, come era nelle pretese delle case editrici. La sentenza di consenso negoziato si ferma qui in attesa di due linee evolutive della vicenda: da una parte IA dovrà chiarire in che misura (con quale licenza) si paragona agli istituti bibliotecari, siano essi tradizionali, digitali o ibridi, dall’altra parte IA farà appello proprio sulla ridefinizione del fair use per una nuova accessibilità a tutte le risorse e i documenti la cui diffusione contribuisce al benessere collettivo prima di essere un asset nel recinto della proprietà privata.