La certificazione Human Authored attesta che l’autore del libro è a tutti gli effetti un essere umano, che può, al massimo, aver fatto un uso minimo della tecnologia per controllare “l’ortografia e la grammatica o per il brainstorming o la ricerca”
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Human authored è un’iniziativa perimetrata ai soli membri aderenti e ai soli testi monoautoriali e che, in realtà non punta affatto a una qualche forma di obiezione di coscienza nel lavoro creativo di produzione del testo. La cosa non stupisce e permette di ricondurre la campagna nello spirito di branding che le è proprio, a preoccupare è invece l’incedere del discorso pubblico sull’AI in ambito editoriale.
Fu a quel punto, stando ai documenti della causa e a una ricostruzione fatta dall’Atlantic, che alcuni impiegati di Meta valutarono la possibilità di utilizzare LibGen (da “Library Genesis”), una delle più grandi biblioteche non autorizzate su Internet che raccoglie milioni di libri e di studi accademici, una sorta di Pirate Bay, ma solo per i contenuti testuali. Se avessero attinto da quella biblioteca, avrebbero potuto accelerare il lavoro di raccolta e analisi dei test, rendendo più spedito l’allenamento di Llama 3. Il gruppo di lavoro ricevette il permesso di utilizzare LibGen da un responsabile citato nelle conversazioni come “MZ”, le stesse iniziali del CEO di Meta, Mark Zuckerberg.
Il post
Nel mese di marzo, proprio mentre gli editori francesi alzavano gli scudi contro i comportamenti disinvolti di Meta in fatto di diritto d’autore, OpenAI ha detto esplicitamente che è ora di riformare la lesiglazione USA sul copyright, pena la sconfitta nella competizione con la Cina.
E così mentre Un ordine esecutivo del Presidente Trump del 14 marzo ha avviato il processo di riduzione ai minimi termini, finalizzato ad una futura chiusura, dell’unica agenzia federale dedicata al finanziamento dei servizi bibliotecari, l’Institute of Museum and Library Services (IMLS) osserviamo le grandi corporation sfruttare a fini commerciali servizi nati anche per riformare in senso libertario, e non anarco-capitalista, quello tesso sistema di recinti. Per paradosso la videogame history foundation, che ha invece recentemente inaugurato la sua biblioteca digitale, mette tutto ma proprio tutto sui videogiochi non più in commercio a disposizione dell’utenza, purché non (si) giochi.
Un modello di intelligenza artificiale non può godere del diritto d’autore per un’opera creata dal modello stesso. A deciderlo è stato il tribunale distrettuale federale del District of Columbia in una sentenza del 18 marzo 2025, confermando la decisione dell’Ufficio per il copyright degli Stati Uniti (Usco) nel caso Thaler v. Perlmutter.
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Quest’ultima vicenda ha inizio con il tentativo di registrazione di un’immagine la cui autorialità è presentata pienamente in capo al sistema di IA generativa Creativity Machine da parte del suo inventore. La richiesta è stata due volte rigettata dall’Usco – l’ufficio per il copyright USA – che ha ribadito il carattere imprescindibile di un significativo contributo umano perché un’opera in termini di novità e originalità, affinché un’opera goda della protezione, ad esempio attraverso tecniche di inpainting volte a modificare l’esito del processo algoritmico. In buona sostanza non v’è chiusura preconcetta al riconoscimento purché la componente umana abbiamo un ruolo di un qualche peso, affinché il processo produttivo sia definibile creativo.
Questa stessa concezione, in ambito del tutto diverso, riverbera nel posizionamento di Wikimedia a proposito di contenuti prodotti dalle IA generative sull’enciclopedia più grande del mondo, i cui limiti sono stati recentementi illustrati qui: la cautela della comunità di Wikimedia Italia è dovuta a diversi fattori di rischio: le allucinazioni di cui le AI generative continuano a soffrire, il rischio di imprecisioni gravi, l’assenza di fonti e di citazioni, ma soprattutto un possibile corto circuito nei risultati se le AI cominciassero ad addestrarsi con articoli scritti da loro stesse.
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